La guerra all’Iran non ha senso. Ecco perché è pericolosa
Quella che si sta prospettando come una vera e propria guerra all’Iran è priva di senso logico, per diverse ragioni e sotto diversi punti di vista.
Al di là della prospettiva di ridefinire la mappa del nuovo medio oriente, indebolendo il fronte sciita che fa perno proprio sull’Iran, prospettiva tutta da verificare, la guerra in Iran non ha un senso logico da parte israeliana, perché le premesse indicate dal governo Netanyahu appaiono in larga parte già smentite. Non ha un senso da parte statunitense, perché si basa sulle stesse fallaci motivazioni formulate da Tel Aviv e perché smentisce la retorica “isolazionista” con la quale Donald Trump si è fatto eleggere. Non ha un senso compiuto per l’Unione Europea, che tramite alcuni suoi esponenti si è già mostrata acriticamente allineata allo stato d’Israele, con rarissime e flebili eccezioni. Non ha un senso logico, inoltre, se si osserva la storia recente: quella degli ultimi trent’anni, che a quanto pare non ha scolari ed è tutto, fuorché “magistra”.
La fallace prospettiva israeliana
Cominciamo con la prospettiva israeliana, che è stata a più riprese esposta dal premier Benjamin Netanyahu e da alcuni video che ormai da più di una settimana vengono diffusi con apposite sponsorizzazioni su YouTube. Se per un verso la logica israeliana mostrata negli ultimi anni è quella di un attacco frontale ai paesi alleati dell’Iran, che ha prodotto nel breve termine qualche risultato, pur compromettendo l’immagine israeliana, per un altro verso la narrazione del vertice del governo del Likud a proposito della operazione Rising Lion lanciata lo scorso 13 giugno si fonda sul presupposto che l’Iran voglia distruggere Israele grazie all’arricchimento dell’uranio, su cui starebbe lavorando da anni:
“Se l’Iran non verrà fermata, potrebbe produrre l’arma nucleare per distruggere Israele, come 80 anni fa ha fatto il regime nazista”
Questo è il senso delle parole di Netanyahu di una settimana fa, al lancio dell’operazione. Solo due mesi fa, però, la stessa responsabile dell’intelligence americana, Tulsi Gabbard, aveva pubblicamente tranquillizzato l’opinione pubblica sul fatto che l’Iran non stesse arricchendo l’uranio per fini strategici.
Nonostante le smentite dello stesso inquilino della Casa Bianca rispetto alla sua sottoposta, la stessa conclusione è stata formulata dal direttore dell’Agenzia internazionale per l'energia atomica (IAEA), Rafael Mariano Grossi, alla CNN:
“Non abbiamo alcuna prova di uno sforzo sistematico per arrivare a un’arma nucleare” da parte iraniana.
L’altro cavallo di battaglia del fronte “interventista” è che l’Iran, essendo una teocrazia islamica, non può e non deve dotarsi dell’arsenale nucleare. Posto il fatto che, stando alle informazioni super partes, così non è, l’argomento risulta fallace per due questioni: anzitutto, l’Iran sarebbe in ordine temporale il decimo paese a dotarsi del nucleare, dopo Russia, Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Cina, Pakistan, India, Corea del Nord e la stessa Israele. Inoltre, è la stessa Israele a non aver aderito al Trattato di Non Proliferazione Nucleare, insieme a India, Pakistan e Sudan del Sud e ad aver avviato l’operazione militare sulla base di prerogative religiose e riferimenti biblici espliciti: nel video sull’operazione, la voce di Netanyahu afferma decisa
“come ci insegna la Bibbia, quando qualcuno viene per uccidervi, alzatevi e agite per primi” o, come in un altro video, “may God bless Israel, may God bless the forces of civilization”.
La narrazione israeliana sta inoltre battendo su un altro tema caro ai vertici del paese fin dall’inizio del conflitto a Gaza: Israele è il baluardo del mondo civilizzato e il supporto ad esso significa garantirsi, da parte delle forze occidentali, una sicurezza duratura contro le forze barbare. Una visione manichea delle relazioni internazionali che fa il paio con tutta la narrazione che accompagna le operazioni a Gaza.
Qui emerge un problema enorme, che stride con quanto avviene nell’altro fronte bellico: Israele sostiene che in Iran siano state colpite solo le infrastrutture militari e che i target colpiti sono stati solo quelli di interesse strategico. Nel video che accompagna questa narrazione, viene ribadita con forza una precisione d’attacco (ricordiamo che l’Iran dista circa 2.000 km da Israele) che non si riscontra sul terreno di Gaza, dove le infrastrutture civili e la stessa popolazione sono stati tragicamente coinvolti negli attacchi aerei dell’esercito israeliano.
Vi è un ulteriore aspetto di insensatezza della guerra israeliana contro l’Iran: molti esultano alla notizia che i cieli sono controllati per lo più dall’IDF, ma è dalle pagine di Foreign Affairs che si sostiene l’inutilità della guerra aerea israeliana. L’articolo di Robert A. Pape parla chiaro:
“gli attacchi di precisione non distruggeranno il programma nucleare iraniano né il suo governo”. E la guerra aerea di Israele è del tutto “futile”.
Non sono infatti chiari i reali obiettivi strategici israeliani: rimanendo alle dichiarazioni formali, l’intento sarebbe quello di distruggere e smantellare il programma nucleare iraniano e, accanto a ciò, tentare un regime change. Un obiettivo nei fatti irrealistico e, laddove possibile, addirittura nefasto anche per Israele, almeno stando alla storia recente. La popolazione iraniana, sebbene con forze interne che spingono per un cambiamento nel paese, con gli attacchi israeliani è più probabile che si compatterà piuttosto che chiedere la testa dei guardiani della rivoluzione.
La stessa pretesa di Netanyahu di decapitarne lo stato degli Ayatollah uccidendo direttamente il capo supremo Khamenei - al di là della gravità in termini giuridici internazionali di tale affermazione - evidenzia una propensione a pensare all’Iran come se fosse un videogioco geopolitico, in cui è sufficiente uccidere l’ultimo mostro per conquistare i cuori di 90 milioni di abitanti. L’inefficacia di una tale prospettiva è che a proporla è proprio il nemico pubblico numero 1 dello stesso paese persiano.
Quale senso per gli USA?
Da parte statunitense, stiamo assistendo a una sorta di “suicidio” della credibilità interna e internazionale di Donald Trump, soprattutto nei riguardi del suo elettorato. Se infatti era stato eletto sulla scorta di prospettive di pacificazione mondiale, anche sulla base dell’esperienza della sua prima amministrazione, oggi quella prospettiva appare totalmente superata. Il tycoon ha infatti fatto sapere, dopo le iniziali ondivaghe dichiarazioni e le ultime minacce all’Iran, che gli Usa sono pronti a entrare in guerra.
Trump al momento è privo di un orientamento e sembra in totale balia dell’alleato storico mediorientale, tanto che i rapporti di forza tra i due paesi andrebbero rivalutati alla luce di ciò che sta accadendo. Nel 2011 scriveva il tweet riemerso qui sotto, corroborato da un video che ormai sta circolando da diversi giorni.
Ad aggiungersi alla confusione mostrata in questa settimana, e all’atteggiamento tutt’altro che chiaro, vi è poi l’incredibile intervista di Tucker Carlson al senatore repubblicano Ted Cruz, in cui quest’ultimo ne è uscito mediaticamente a pezzi.
Tra gli aspetti più interessanti del colloquio, durato quasi due ore, vi è la continua contraddizione in termini mostrata dal senatore su Israele: per un verso si è dichiarato sempre avverso alle operazioni di militari passate di esportazione della democrazia, per un altro verso oggi si ritiene il coinvolgimento americano in Iran necessario, senza darne motivate giustificazioni. All’osservazione del giornalista sulla necessità di occuparsi dello stato di degrado delle città e dell’economia americana, Cruz si è difeso incolpando le amministrazioni locali guidate dai democratici. La battuta di Carlson non si è fatta attendere: “dovreste puntare a un cambio di regime interno, allora, non a quello dell’Iran”.
Il passaggio a mio avviso cruciale è però quello sulla prospettiva di destituite il regime degli Ayatollah. La domanda del giornalista è decisamente ficcante, perché ne mostra la totale infondatezza: a cosa serve un cambio di regime, visto che in Iraq, in Afganistan, in Libia, in Siria, le operazioni militari degli ultimi 25 anni hanno prodotto situazioni ben peggiori di quelle precedenti? E ancora, chiede al senatore:
“c'è stato un solo regime change supportato dagli Usa che abbia avuto successo negli ultimi cento anni?”
La risposta di Cruz è tanto disarmante quanto priva di senso, soprattutto se paragonata a quanto si prospetta oggi in Iran: “Certo. La sconfitta dell'Unione Sovietica”. Inutile soffermarsi sul fatto che non si sia trattato di un cambio di regime indotto dagli Stati Uniti con un intervento militare diretto, che è il vero e unico nodo della questione oggi in Iran, così come degli altri scenari bellici evocati da Carlson. Qui si dipana tutta l’insensatezza della prospettiva americana: come si può ignorare quanto avvenuto dal 2001 in poi con il falso presupposto, fallito miseramente, della esportazione della democrazia, che dopo vent’anni ha visto il ritorno dei talebani al potere? Come si può ignorare il falso presupposto di Colin Powell e delle fialette di antrace mostrate in mondovisione per giustificare un’assurda guerra in Iraq, dove dopo l’uccisione di Saddam Hussein si è affermato lo Stato Islamico, a fronte di oltre un milione di morti civili? Come si può ignorare l’estensione del dominio del Califfato anche nell’altro scenario, già dimenticato, della Siria, dove le operazioni di cacciata di Bashar al-Assad hanno lasciato libero il campo all’ex (?!) jihadista Al-Jolani? Come si può inoltre dimenticare che l’interventismo in Libia ha provocato sì la destituzione di Gheddafi, ma anche l’esplosione di una interminabile guerra civile, la presa di potere di bande criminali e la tragica vicenda delle stragi di migranti irregolari nel Mediterraneo?
Non si tratta di scenari appartenenti ad altre epoche storiche, ma è quanto avvenuto nel breve frangente di questo nostro quarto di secolo.
Anche nel caso di Cruz, non vi è alcuna spiegazione logica nella volontà di intervenire in Iran. E anche nel suo caso, interviene una visione messianica di questa guerra che cozza drasticamente con la logica della lotta contro una teocrazia: è lo stesso Cruz che si rifà, in maniera decisamente scomposta, a versetti biblici che indicherebbero nel sostegno a Israele una necessità dei “benedetti del mondo”.
Illogicità europea
Non vi erano molti dubbi anche sul generale appiattimento europeo alle volontà israeliane, pur con qualche voce discordante. Quella forse più eloquente a favore dell’intervento, nel desertico panorama europeo di relazioni internazionali, è stata quella del cancelliere tedesco Merz, il quale ha fatto sapere che
“Israele fa il lavoro sporco per tutti noi. Valutiamo la partecipazione alla campagna militare contro l’Iran”
La dichiarazione è stata rilasciata ieri: “anche noi siamo colpiti da questo regime. Questo regime di mullah ha portato morte e distruzione nel mondo, con attentati, omicidi e assassinii, con Hezbollah, con Hamas, il 7 ottobre in Israele”. Occorre ricordare che gli scenari a cui il cancelliere fa riferimento sono prettamente mediorientali e regionalmente definiti. E che quelle guerre hanno a che fare con quel contesto, non con quello europeo.
Si tratta poi di una guerra intrinsecamente insensata perché mette in evidenza il doppio standard occidentale e la fallacia dell’argomento col quale è stata descritta la guerra in Ucraina negli ultimi due anni e mezzo. Nel caso mediorientale non vi è più un “aggressore” e un “aggredito” da difendere a tutti i costi. Non vi è più la legittima necessità di difendersi da parte iraniana, né ad armarsi contro minacce alla propria esistenza da parte di un paese aggressore.
Conclusioni
L’aver sdoganato oggi la fallimentare guerra preventiva adottata nell’ultimo trentennio dagli Stati Uniti appare un errore strategico potenzialmente dirompente. Non solo perché, fino ad oggi, questo concetto strategico si è schiantato contro un muro, ma anche perché proprio i precedenti storici ci dicono che tale postura produce puntualmente conseguenze assai più nefaste di quelle preventivate. È eloquente a questo proposito l’affermazione del ministro israeliano alla difesa Katz a Khamenei:
“chi agisce come Saddam finirà come lui”
Il ministro dovrebbe ricordarsi, da par suo, com’è finita la guerra in Iraq per chi l’ha cominciata su false premesse storiche. Al di là dei successi momentanei delle forze israeliane, peraltro da valutare attentamente, e della distrazione - anch’essa momentanea - rispetto al disastroso teatro di Gaza, il rischio è comunque quello di incentivare una guerra senza fine in cui, nel medio o lungo periodo, rischia che la stessa Israele possa avere le ripercussioni più rilevanti, tenuto conto dei 5 fronti aperti in questi ultimi due anni.
Articolo molto interessante! Ho scritto un articolo sul ruolo dell’Italia in questo conflitto, se interessato mi farebbe piacere sapere la sua opinione a riguardo!